Le vie del presepe di San Miniato e di Cigoli

Fabrizio Mandorlini


Nell’Italia dei presepi, è unica la proposta di San Miniato, in provincia di Pisa, nel cuore della Toscana. 
Il presepe naturale a cielo aperto fatto dalle sinuose colline di San Miniato, come dalla valle dell’Arno, fa da corona agli oltre mille presepi che in ogni borgo, pieve e castello, come nel centro storico, vengono realizzati nel periodo di Natale.  Una tradizione lunga ottocento anni iniziata con San Francesco e che continua con Betlemme
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Fu fondato esattamente più di 800 anni fa, nel 1211, il monumentale convento di San Francesco, a seguito di una visita in città del santo d’Assisi. Con la costituzione dell’ordine francescano dei Frati Minori Conventuali arriva in città la tradizione del presepe, tramandata nei secoli e praticata nelle chiese e nei conventi della città medievale e rinascimentale; rinvigorita dal 1622 con la nascita della diocesi, fino ad arrivare ai giorni nostri. Oggi il presepe, viene riproposto a San Miniato, nel segno della tradizione e attraverso un rinnovato ponte di solidarietà con Betlemme.
 
San Miniato ha un legame tutto particolare con la città della Natività: un gemellaggio che si rinnova ogni anno che mira a promuovere la pace e la cooperazione, e che un ente, la “The People of San Miniato Foundation” ha trasformato in forma concreta di solidarietà economica, attraverso la concessione di finanziamenti e operazioni di microcredito per valorizzare il piccolo artigianato e promuovere l’economia di quella cittadina in Terra Santa.
 

Una via dei presepi lunga due chilometri
 
Gli angoli naturali con le suggestive vedute che si hanno nel centro storico di San Miniato si trasformano in presepe, in un percorso lungo più di due chilometri. Accanto a quelli che vengono realizzati nelle famiglie, si affiancano quelli realizzati nelle chiese, negli attici degli storici palazzi, lungo i vicolo carbonari, nelle sedi di associazioni ed enti, in luoghi caratteristici; presepi realizzati da bambini, giovani o anziani ed altri più propriamente artistici, dove la sapiente mano di maestri presepisti dà vita a ricostruzioni e ad ambientazioni suggestive.
 
Ci sono poi presepi che portano in città la tradizione di altre culture, di altre città e di altre terre d’Italia e del mondo, ci sono i presepi permanenti che possiamo ogni giorno ammirare, ma che nei giorni di Natale prendono tutta un’altra sembianza. Il patrimonio artistico che il Sistema Museale di San Miniato e le chiese della città conservano al suo interno sono opere assai pregevoli, un vero e proprio itinerario alla scoperta di raffigurazioni (Annunciazioni, Natività, Madonne con Bambino e Sacre Famiglie) affidate nei secoli ai pennelli di validi artisti noti nei libri di storia dell’arte, sconosciute ai più, ma patrimonio di fede e di devozione. Come non pensare alla “Madonna in trono” opera del “Cigoli” o alla “Madonna che allatta il bambino”, che dà il nome alla “Sala delle sette virtù” in palazzo Comunale?
 
Le vetrine dei negozi dei commercianti di San Miniato aggiungono alle attrattive fatte di prodotti tipici del territorio e del piccolo artigianato, un ulteriore elemento: un presepe o un’opera d’arte che richiama il Natale; ogni bottega secondo la propria sensibilità e la propria tipologia di attività.
 

Un presepe ispirato alla tragedia dei migranti e a Papa Francesco
C’è chi dice che sia il più grande della Toscana. Non lo sappiamo. Sicuramente è un presepe da record quello allestito nel retro del nelle seminario vescovile, (accesso dopo piazza del Seminario) dall’artista sanminiatese Mario Rossi. Un presepe allestito nel segno della “povertà” e che trae spunto da vicende che, purtroppo, sono diventate quotidiane, come gli sbarchi a Lampedusa o alle tragedie del Mediterraneo. Migranti di oggi come erano migranti di ieri Giuseppe e Maria. Su tutto questo le parole di Papa Francesco appaiono come un richiamo alle coscienze di ognuno e a questi richiami per l’uomo di oggi si è ispirato, in un presepe a misura d’uomo, dove il visitatore è il protagonista e fa parte del presepe stesso, il presepista Mario Rossi.

Sulla collina di Cigoli, sulle orme di Lodovico Cardi
 
Nel paese che ha dato i natali al pittore Lodovico Cardi, Cigoli, l’antica pieve è il luogo ideale e suggestivo per accogliere il presepe artistico. Lo realizzano da tredici anni un gruppo di “giovani presepisti” coordinati da Andrea Ferreri. Ogni visitatore fa il suo ingresso nel presepe seguendo un percorso che si addentra nel paesaggio tipico palestinese per seguirlo lungo tutta la sua estensione ed uscire in quello che potremo definire, la periferia di Betlemme. Particolare cura è stata inoltre dedicata alla riproduzione della città di Gerusalemme. Esaltati e curati nei minimi particolari sono i personaggi del presepe intenti nelle varie attività: dal fornaio al falegname, dal pastore al panettiere, dal pescatore al calzolaio. Grazie ai sofisticati sistemi tecnologici impiegati non mancano suggestivi giochi di luce, musiche e i giochi d'acqua.
 Mentre la pieve di San Giovanni Battista si trovano così tante suggestioni, nella chiesa di San Rocco a Cigoli i ragazzi delle scuole hanno realizzato una serie di piccoli presepi che sono in esposizione. L’anno quattrocentenario in onore del pittore Lodovico Cardi “Il Cigoli” verrà ricordato nel tempo di Natale con una mostra didattica che ne ripercorre la vita e le opere principali allestitata anch’essa nella Chiesa di San Rocco.

Il Presepe vivente con oltre cento protagonisti
 
A San Miniato Basso i marmi bianchi che rivestono la chiesa della Trasfigurazione, realizzati nella bottega di un artigiano marmista di Betlemme, simbolo di quel ponte straordinario che unisce San Miniato alla Terra Santa, fanno da sfondo alla rappresentazione del presepe vivente messo in scena da oltre cento “attori” grandi e piccoli in un percorso che si articola attraverso varie scene, dall’Annunciazione all’Adorazione dei Magi.

Don Ruggini ha aperto strade che in tanti hanno percorso...



di Fabrizio Mandorlini

Guarda il video http://youtu.be/c2oN4vLgO3g
Chiese di entrare in seminario verso la fine dell’estate del 1943. Da poco tempo rientrato dalla campagna di Russia il sottotenente Giancarlo Ruggini scelse, in un particolare momento della storia d’Italia, di rispondere alla chiamata che da anni, dai tempi del liceo, era ormai maturata in lui.
A quei giorni i Ruggini abitavano a Empoli dove il padre era stato promosso segretario capo del Comune dopo l’esperienza precendente di segretario comunale a San Miniato. Il cardinale Elia Dalla Costa prese tempo, temeva che Ruggini volesse sottrarsi a doveri di carattere civile e militare, e non accolse la sua domanda. Domanda che fu accolta con soddisfazione dal vescovo Ugo Giubbi di San Miniato. Iniziò per lui un nuovo capitolo della sua vita.
Ruggini aveva fatto fino ad allora il proprio dovere di italiano. Pur ripudiando la guerra, aveva portato a termine la campagna di Russia dove era rimasto ferito alla gola. La sua voce per giorni non si fece sentire. Rientrato in Italia, trascorse la convalescenza in ospedale. Il 19 luglio incontro alla Basilica di San Lorenzo a Roma, appena bombardata, Papa Pio XII. “Mi apparve… con le braccia spalancate ad abbracciare tutti i dolori, tutta la disperazione di un’umanità affogata nell’odio” scrisse il giorno della sua ordinazione.
I giorni del passaggio del fronte a San Miniato nell’estate del ’44 vedono, tra gli altri, protagonista indiretto nei fatti principali il seminarista Ruggini. Il 22 luglio sarà per Giancarlo un giorno triste. Durante un cannoneggiamento sulla città, avvenuto poco dopo le 10, un tiro di artiglieria americano penetra attraverso il rosone del duomo. Cinquantacinque i morti, una ferita ancora aperta a San Minato. Tra i morti ci fu anche Carlo Ruggini, padre di Giancarlo. La sua opera fu encomiabile quel giorno, come quella del clero sanminiatese. Mentre il padre morente veniva portato in episcopio, il chierico, insieme ai sacerdoti Stacchino, Fiorentini, Mannucci, al vescovo Giubbi e ad alcuni volontari, prestò la sua opera di pietà accompagnando i feriti all’ospedale, sotto le bombe, con mezzi improvvisati e barelle ricavate dagli scuri delle finestre. Non mancò mai di difendere il suo vescovo, accusato a voce di popolo di quella calunnia enorme e infondata, ma che resiste tuttora in certi ambienti.
Monsignor Giubbi morì il 23 settembre del 1946. Fu Felice Beccaro ad ordinare sacerdote don Giancarlo Ruggini, il 29 giugno 1947. Si compì così il suo desiderio e quello di suo padre.

L'incontro con il teatro
Ricostruire le coscienze degli uomini lacerate e divise dalla guerra. E’ ciò che è importante per Ruggini in questi momenti. Serve però un modo “non convenzionale”. Il giovane sacerdote si accosta così all’Istituto del Dramma Popolare perché scopre nello spettacolo teatrale, fin dalla prima rappresentazione nel 1947 de La Maschera e la grazia di Ghéon, che aveva seguito da spettatore, una sollecitazione intellettuale ed un lievito di crescita morale e religiosa per le classi meno privilegiate.
Nel 1948, l’anno in cui va in scena Assassinio nella Cattedrale, don Ruggini è a tutti gli effetti coinvolto. E’ l’anno in cui il teatro sanminiatese si apre all’Italia, l’incontro con il Piccolo di Milano di Giorgio Strelher, con attori, registi e critici d’avanguardia, teatro cristiano, teatro per evangelizzare. Quell’incontro fu la fortuna del Dramma Popolare di San Miniato e Ruggini, di fatto direttore artistico, ne segue e ne guida le vicende per venticinque anni. La visione dell’arte drammatica non è che un aspetto del suo pensiero filosofico e religioso, anzi ne costituisce l’apertura sul piano sociale. Da una prima intuizione del teatro pensato come fatto emozionale, come “sentire insieme”, che soddisfa in tutti il bisogno di aggregazione e di commozione estetica, si passa nel corso degli anni Cinquanta al concetto di “teatro dibattito”, momento di discussione e di riesame dei più pungenti interrogativi che agitano la coscienza moderna.
Sono gli anni in cui vanno in scena, tra gli altri, Il poverello di Jacques Copeau, Giovanna e i giudici di Thierry Maulnier, L'ultima al patibolo di Georges Bernanos per la regia di Orazio Costa, L'aiuola bruciata di Ugo Betti, regia di Orazio Costa, E' mezzanotte dott. Schweitzer! di Gilbert Cesbron, regia di Luigi Squarzina, Il potere e la gloria di Graham Greene, regia di Luigi Squarzina, Veglia d'Armi di Diego Fabbri, regia di Orazio Costa, L'ostaggio di Paul Claudel, J.B. di Archibald MacLeish, regia di Luigi Squarzina, Il grande statista di T.S. Eliot, regia di Luigi Squarzina.
Educare con il Dramma Popolare significava allora agire sul modo di pensare dell’uomo, costringerlo a mettere a fuoco situazioni morali del suo vissuto ed a porsi in un nuovo rapporto con il mondo e con Dio. Ecco perché Ruggini considerò il J.B. di MacLeish il suo fiore all’occhillo: i sanminiatesi, schierati in due opposte fazioni, disputarono nei bar per un mese in pro di Dio e di Satana. Non si fa più appello alla suggestione, inconsistente ed effimera, ma alla comprensione dell’arte che impegna nello stesso tempo l’intelligenza e il mondo affettivo di chi assiste allo spettacolo.

La stagione della denuncia
Negli anni Sessanta Ruggini risponderà alla società del benessere con la teorizzazione della filosofia della persona e con la nuova denuncia. E’ il nuovo corso del Dramma, che vive la novella stagione del cristianesimo ecumenico allargando il quadro dei valori e cercando un punto di incontro con “gli uomini di tutte le provenienze”, ma che credono seriamente “in ciò che li fa uomini”. Si tratta di difendere la fede in qualche cosa di più autentico che non sia l’opulenza del consumismo. Ora non basta più svegliare le coscienze, è necessario contagiarle col “fastidio” di Cristo.
Al teatro che affratella e consola tutti nell'abbraccio finale si oppone un teatro che scuote col turbamento della sfida e della denuncia "senza attenuanti": denuncia della società affluente che disumanizza la persona e costruisce tra uomo e uomo un muro di indifferenza; denuncia dell'egoismo del singolo e dei popoli, fonte di predominio e di prevaricazione; denuncia dell'incoerenza tra la fede professata e la fede vissuta; denuncia della "chiesa giuridica" che soffoca e spenge quella profetica e quella della povera gente.
A San Miniato vanno in scena La guerra dei figli della luce, per la regia di Franco Enriquez; Miguel Manara di Czeslaw Milosz, regia di Orazio Costa; Il primogenito di Christopher Fry, regia di Orazio Costa; La riunione di famiglia, di T.S. Eliot, Sotto il sole di satana di Diego Fabbri, Il segretario particolare di T.S. Eliot, Il concerto di Sant'Ovidio di Antonio Buero Vallejo, Querela contro ignoto di George Neveuz, L'avventura d'un povero cristiano di Ignazio Silone, Il sonno della ragione di Antonio Buero Vallejo.
Molti si domandarono se questo era ancora un teatro cristiano. Ruggini rispose di sì perché ciò che interessava non era tanto il confessionalismo religioso, quanto piuttosto la proposta di una problematica che spinga l’uomo moderno a guardare nel suo intimo per riscoprirvi le sue ansie più segrete, i suoi tormenti più reconditi.
Non tutti però la pensavano così. Ruggini e l’Istituto del Dramma Popolare ebbero rapporti più o meno burrascosi con la gerarchia ecclesiastica.
Un'incomprensione scaturita spesso dal non riuscire a capire e saper leggere la situazione del momento. Se negli anni Cinquanta l'Osservatore Romano non esita a stroncare E' mezzanotte dott. Schweizer! accusandolo "di immanentismo, di protestantesimo, di agnosticismo e non so di quale altra diavoleria", non va meglio a Dialoghi delle Carmelitane dichiarati "eretici" o quanto scritto il 22 ottobre 1954 in un articolo titolato "Una strada sbagliata".
"Ma come? - scriveva Ruggini al critico Silvio D'Amico - in Italia c'è un'unica istituzione che si affatica a introdurre nel teatro un'aria un po' più respirabile, un'aria cristiana: tutto il resto è pressoché monopolio dei comunisti... e questa unica istituzione cattolica; tirata avanti da cattolici con tanti stenti, con all'attivo veri successi, non solo teatrali, ma religiosi e morali, deve avere le ire ringhiose di vescovi e dell'organo ufficioso della Santa Sede! Ma in che mondo siamo? Questo è il più pazzo trionfo dell'autolesionismo, questa è un'evirazione volontaria, questo è un suicidio vero e proprio!"
E alla fine il vescovo di San Miniato Felice Beccaro gli chiese di lasciare la guida del Teatro di San Miniato dopo aver vietato, in alcuni casi, ai religiosi di assistere agli spettacoli. In un contesto non facile, la rappresentazione de Il potere e la gloria di Graham Greene, un testo considerato scabroso per l’epoca, fece emergere il diverbio tra chi era anticipatore dei tempi, Ruggini, e chi rappresentava la tradizione e doveva farla rispettare, il vescovo. E ciò malgrado la profonda stima che correva tra i due religiosi. Solo il tempo e lunghe mediazioni portarono a una soluzione del caso. Don Ruggini pagò dunque di persona l'equivalente teatrale dell'avventura di un don Milani o di un don Mazzolari, vincendo e al tempo stesso perdendo una battaglia culturale poco nota ma estremamente sintomatica.
Ruggini risultava pienamente inserito nei cambiamenti culturali cattolici dell’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta. Pur essendo un netto antifascista e anticomunista, fu un prete che non conosceva steccati di nessun genere. Copeau aveva detto che il teatro sarebbe stato marxista o cristiano e che tra i due non ci sarebbe stato scampo. Fiero avversario di steccati, di barriere e staccionate, Ruggini rigettò l’alternativa: il dramma cristiano è quello della condizione dell’uomo di oggi, e profondamente cristiana è la voce dell’arte che parla il linguaggio della solidarietà al di là di ogni opinione e di ogni credo politico e religioso.
Fu facile fraintendere il suo pensiero e gridare al prete “rosso” e comunista: non si pensò nemmeno lontanamente all’amarezza del sacerdote che vedeva nella società contemporanea smarrita la dimensione del divino, ostentati e non realizzati i valori della dottrina cristiana, traditi i fondamenti pedagogici della persona, ispirata al mistero di Cristo.

Una “verità che si incarna”
Don Ruggini era dunque un uomo privo di mezzi toni. Tutto bianchi e neri. Ed era forse qui il suo maggior difetto, ma anche la sua grandezza, la capacità di totale immedesimazione, di aggredire le cose con incredibile forza morale. E’ significativo il suo iniziale proposito di “entrare a far parte del clero non come semplice prete, ma come gesuita: questi sacerdoti – spiegava confidandosi a un amico – che portano alla cintola il crocifisso a mo’ di spada, vanno bene per il mio carattere: amo le istituzioni e le persone decise e credo, che, nella chiesa, non vi sia ordine più battagliero di questo”.
Nel 1971, per l’ultima volta animatore della Festa del teatro, Ruggini si congedò offrendo al pubblico l’illustrazione di una scelta coraggiosa, L’erba della stella dell’alba e la ricostruzione intellettuale di una scelta di vita: l’Istituto del Dramma Popolare.
"Ci si potrebbe meravigliare - scrisse - che San Miniato, che ha da sempre dichiarato di volersi battere per un teatro moderno di ispirazione cristiana, sia ricorso proprio quest'anno ad una spiritualità così remota ed esotica come quella che forma la visione religiosa dei Sioux; quasi che il Vangelo non basti e abbisogni di integrazioni da parte di religioni pagane. Ma sarebbe questo un vero modo di fraintenderci. Noi precisammo fin dal nostro nascere che non ci interessava un teatro puramente devozionale ed edificante, che volevamo un teatro impegnato sui problemi e sulle inquietudini spirituali del nostro tempo; non ci attirava una verità pura quanto si vuole, ma astratta; ci affascinava invece la parabola di una verità che si incarna e per questo è cristiana, una verità che non teme di compromettersi nella storia, misurando nel concreto le sue responsabilità; ci interessava insomma verificare quanto nella realtà c'è ancora di cristiano, quali siano i segni dei tempi, da qualunque parte e popolo e cultura e civiltà essi vengano, che possono profetizzare una nuova stagione del cristianesimo".

Non solo teatro
Sarebbe riduttivo circoscrivere la figura di don Ruggini al solo teatro, anche se i primi venticinque anni di storia dell’Istituto del Dramma Popolare possono essere a ragione identificati con lui.
Egli fu anche un grande conferenziere, un animatore di dibattiti, un mediatore di cultura. Fece sua come organizzatore o come assiduo collaboratore ogni iniziativa che durante gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta in San Miniato, Empoli e nel contesto territoriale, studiasse tematiche di natura teologica, economica, storica e artistica. Perfino l’azione politica e l’opera appassionata svolta in seno alle Acli sono orientate alla formazione morale e sociale dei lavoratori e diventarono aspetti centrali del suo programma di educazione del popolo. Per questi motivi il Dramma Popolare, un teatro cioè cristiano e attuale, “per gli uomini di oggi con i loro problemi di oggi”, fu l’asse portante del suo progetto educativo.
La sua attività all’interno delle Acli, la sua collaborazione preziosa con il settimanale diocesano “La Domenica”, il suo insegnamento al Liceo, facevano parte della sua vita quotidiana.
Morì improvvisamente nel Liceo scientifico di San Miniato il 15 dicembre 1973, mentre si accingeva a tenere lezioni di religione ai suoi amatissimi alunni. Le esequie si svolsero in Cattedrale il 17 seguente con una messa presieduta dal vescovo e concelebrata da numerosi sacerdoti, con straordinario afflusso di popolo. Il suo “cuore ballerino” come lo definiva lui, aveva ceduto.
Era nato l’11 ottobre 1920 a San Miniato. Dopo l’ordinazione sacerdotale aveva prestato servizio per alcuni anni nella parrocchia di Roffia dove si radunava spesso, nell’immediato dopoguerra, un cenacolo di dotte e illuminate persone fra cui don Mario Lupori, don Enrico Bartoletti, don Giuliano Agresti. Fu anche insegnante in Seminario per oltre vent’anni e per due volte membro del consiglio presbiterale. Dal 1° ottobre 1959 fu parroco di San Lorenzo a Nocicchio.
Visse e anticipò il vento del Concilio Vaticano II con venti anni di anticipo dalla sua promulgazione e ancora oggi è in molti ambiti avanti ai tempi.
Don Ruggini ha dunque aperto strade che in tanti hanno percorso e che a distanza di quarant’anni, in tanti continuano a percorrere. Oggi più che mai.

 
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La via Francigena e i pellegrini


© Fabrizio Mandorlini
Non è tutto alla luce del sole quanto San Miniato ha da raccontare. E allora devi guardare oltre, a cercare ciò che il tempo e i secoli hanno cancellato ma conservato, in attesa di tornare a testimoniare il loro essere stati. Ogni epoca ha lasciato il proprio dna, la sua firma, fin dai tempi degli etruschi e dei romani che per primi abitarono il colle.
Si potrebbe dire, come una piccola Roma, che sopra un monumento ne veniva costruito un altro di epoca successiva.
Il sito di San Genesio rappresenta uno dei contesti archeologici più significativi della Toscana per lo studio dell’altomedioevo lungo la via Francigena.
Dalla campagna di scavi, iniziata nel 2001, emerge una città sommersa. Un crocevia. Ne sono la dimostrazione i numerosi reperti ceramici e le centinaia di monete raccolte nel corso degli scavi che mostrano come la pieve fosse collegata ad una rete che univa San Genesio all’Europa e al Mediterraneo.  In una delle ultime campagne di scavo, sono stati ritrovati nell'area, identificata con l'antico cimitero, i resti di una giovane donna che aveva per corredo un denaro d'argento di Carlo Magno, coniato a Tours, in Francia, da dove forse la donna era partita. Altri scavi hanno riportato alla luce capanne in legno d'età longobarda e le fondazioni di un lungo muro in ghiaia, calce e sabbia riferibile all'ultimo periodo dell'età romana. La pieve fu costruita nella seconda metà del VII secolo in un’area frequentata in età etrusca, che poi divenne sede di una mansio in epoca romana e di un vicus in età longobarda.  Se nell’alto medioevo aveva già dimensioni eccezionali, 35 metri per 17, attorno all’anno Mille raggiunse i 45 metri di lunghezza e fu dotata di una cripta e di un chiostro. San Genesio, definito anticamente Vicus Wallari, costituiva un nodo nevralgico del sistema viario.  La sua collocazione, incrocio tra la via Pisana e la via Francigena, fu il motivo delle fortune del borgo che conobbe momenti di vera gloria attorno all’anno Mille.
Sono tanti i pellegrini che oggi percorrono la Francigena, che collegava nel Medio Evo l'Europa settentrionale a Roma, con un flusso ininterrotto di uomini, eserciti, traffici, commerci, idee e culture. Si spostano a piedi.  Come pellegrini di mille anni fa, camminano passo dopo passo sui resti dell’antico selciato fermandosi a San Genesio e seguendo le orme del Vescovo Sigerico che qui sostò nel suo viaggio di ritorno da Roma a Canterbury compiuto tra il 990 e il 994.
Qui sostarono in tanti. Nel 1055 si svolse la “dieta” imperiale indetta dall'imperatore Enrico III e diverse altre vi si tennero tra il 1160 e il 1172, sotto l'imperatore Federico Barbarossa.  Qui i vescovi di Fiesole, Pisa, Firenze e Lucca si incontrarono con il notaio Gunteram, inviato del re Liutprando. E successivamente Papa Gregorio VII, il re di Francia Filippo il Bello.  Luogo di incontro, di riposo e di ristoro, San Genesio.
La Francigena, attraversava buona parte del territorio sanminiatese. Proveniente da Lucca, passava da Galleno, Ponte a Cappiano e Fucecchio e aveva in San Genesio uno dei principali centri. Da qui partiva un fascio viario, non un unico percorso, che saliva lungo il crinale e toccava nelle sue diramazioni Calenzano, San Quintino, Coiano, Corazzano, Castelnuovo d’Elsa, Castelfiorentino per poi riunirsi e proseguire per Siena e arrivare a Roma.  Tra i principali segni che ci sono arrivati fino a noi, la splendida pieve romanica di Corazzano.
La collocazione lungo la via Francigena contribuì alla crescita del borgo che venne abbandonato dai suoi abitanti nell'anno 1200, per essere definitivamente distrutto dai sanminiatesi nel 1248.
Terra di passaggio quella di San Miniato. Terra di mezzo, Città delle XX miglia per segnalare da sempre la centralità rispetto alle città toscane.
Come passano i pellegrini, per i quali ieri come oggi sono a disposizione luoghi di accoglienza e di ristoro,  su questa direttrice, passarono viaggiatori e scrittori. Michel de Montaigne, nel 1581, si fermò a San Miniato e annotò la visita nel suo Viaggio in Italia.  Non è escluso che un altro grande viaggiatore, Wolfgang Goethe, di cui è documentato il passaggio da Firenze a Siena sotto il colle, si sia fermato a visitare San Miniato al Tedesco.
Oggi ciò che era sta tornando alla luce, L’area di San Genesio forse domani sarà un parco archeologico: chissà. Ma la tentazione di diventare per un giorno archeologo alla ricerca di un tesoro nascosto è tanta.
Ora anche questo è possibile.

Dante Alighieri e Federico II


© Fabrizio Mandorlini

Partiamo dalla fine. Da Dante Alighieri.
Scrisse nel tredicesimo canto dell’Inferno: 
Io son colui che tenni ambo le chiavi
del Cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e disserrando, sì soavi
che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi:
fede portai al glorioso offizio,
tanto ch’i ne perde’ li sonni e’ polsi.

Dante si riferiva a Pier delle Vigne, giurista, dettatore in latino e rimatore volgare, protonotaro alla corte di Federico II, il più autorevole tra i consiglieri dell’imperatore. Accusato di tradimento nel 1248, venne gettato in carcere e accecato. Incerto il luogo della sua morte nel 1249, secondo alcuni storici avvenne per una caduta, dentro la torre di Federico dove era stato rinchiuso.
La posizione strategica della torre ha consentito, in epoca medievale, di porre un controllo sul transito tra Firenze e Pisa. Le caratteristiche della struttura indicano la probabile partecipazione alla costruzione di maestranze normanne. San Miniato, di fazione ghibellina, conobbe il suo periodo d’oro con Federico II di Svevia da cui ottenne numerosi privilegi. Egli, tra il 1217 e il 1223, fece costruire la torre sul punto più alto della rocca a completamento delle opere difensive già intraprese da Ottone I, incaricando a sovrintendere alla sua edificazione il cancelliere imperiale Corrado da Spira. Essa, insieme alla Torre di Matilde, attuale campanile della Cattedrale, e alla torre delle Cornacchie (abbattuta nel XVIII secolo) erano i fulcri della fortificazioni della città.
Ce lo indicano alcuni dipinti:la veduta di San Miniato in un affresco contenuto nei corridoi vaticani e un particolare della pala d’altare realizzata dallo Sprangher che si trova nella chiesa di San Francesco. Da escludere sulla base di recenti studi che la «Città del mare» di Ambrogio Lorenzetti, conservata nella pinacoteca di Siena riproduca la San Miniato medievale.
Se Ottone I di Sassonia, nel 962 aveva fondato la sede dei vicari imperiali con giurisdizione su tutta la Toscana a San Miniato, Federico II di Svevia destinò il suo castello alla raccolta dei tributi per l’Italia centrale. In tanti vi soggiornarono e vi risiedettero: Federico Barbarossa dal 1167 al 1178, Enrico IV nel 1184, 1186 e 1194, Ottone IV nel 1209.
La torre, come coronamento e potenziamento della rocca, fu realizzata per rafforzare il complesso difensivo del cassero.  I ritardi nel suo completamento fecero irare l’imperatore che distrusse tutte le torri delle famiglie della città.
Dal secolo XII, San Miniato cominciò a reggersi con magistrati propri e fu coinvolta nelle lotte esplose fra le varie città; crollata la potenza di Pisa ghibellina, a cui San Miniato si era appoggiata, i sanminiatesi furono in seguito sottomessi da Carlo D'Angiò da cui si ribellarono entrando a far parte della Lega Guelfa (1291), fino a quando non vennero assorbiti dalla Repubblica Fiorentina. Ribellatisi a quest’ultima, subirono dalla stessa due assedi (nel 1370 e nel 1396) ed un terzo, nel 1530, da parte degli Spagnoli; questi ultimi occuparono la città il primo febbraio 1530 e ne furono ricacciati il 1primo novembre dello stesso anno da Francesco Ferrucci. Alla caduta di Carlo V, San Miniato venne sottomessa dal Duca Alessandro De' Medici ed entrò a far parte del governo granducale, sotto il quale, con la potente famiglia dei Grifoni, divenne una delle più importanti città della Toscana medicea.
La città, il cui nucleo originario risale all’VIII secolo, quando diciassette longobardi edificarono una chiesa dedicata al martire Miniato, fu conosciuta dunque come San Miniato al Tedesco. Sarà di nuovo una tedesca, Maria Maddalena d’Austria, moglie di Cosimo dei Medici, a privilegiare San Miniato, facendone la sede vescovile. Una grande statua marmorea a lei dedicata fu distrutta a fine Settecento dai giacobini durante la Rivoluzione Francese.

Michelangelo, il Papa, San Miniato e la Cappella Sistina


© Fabrizio Mandorlini
“Nel mille cinquecento trentatre. Ricordo come oggi a dì 22 di settembre che andai a Santo Miniato al Tedesco a parlare a papa Clemente che andava a Nizza; e in tal dì mi lasciò Sebastiano del Piombo un suo cavallo”.
E’ Michelangelo che scrive di questo incontro nei suoi manoscritti. E’ in questo luogo che il papa Clemente VII dà all’artista l’incarico di affrescare la Cappella Sistina, incarico che venne confermato anche dai pontefici che si succedettero.
In quest’incontro ebbe un ruolo determinante la famiglia sanminiatese dei Grifoni, e in particolare Ugolino. Egli studiò a Firenze presso la scuola di Francesco Guicciardini, fu poi maggiordomo del duca Alessandro, e aveva servito appunto Papa Clemente VII Medici. Fu successivamente uno dei segretari di Cosimo I Medici fin dal suo avvento al potere nel 1537. Si dice che nel 1533 Ugolino avesse incontrato Michelangelo Buonarroti per incaricarlo del progetto del palazzo di famiglia a San Miniato, progetto poi portato a termine tra il 1551 ed il 1573 su disegno di Giuliano di Baccio d’Agnolo.  San Miniato aveva già accolto altri papi. Nel 1434 Eugenio IV, fuggito in esilio da Roma al tempo in cui dimorò a Firenze e nel 996 Gregorio V.
La famiglia Grifoni emerse dunque in seguito alla conquista fiorentina di San Miniato, praticando la professione notarile e visse il periodo più fortunato nel XVI secolo quando servì papa Leone X Medici.
Altre famiglie importanti hanno fatto la storia di San Miniato, i Roffia, gli Ansaldi, i Borromei, i Buonaparte, i Gucci, i cui eredi sono oggi alla guida di una delle più importanti griffe del mondo.

La Diocesi di San Miniato e i suoi vescovi


© Fabrizio Mandorlini
La diocesi di San Miniato nacque il 5 dicembre 1622 costituita da un territorio prima appartenente alla diocesi di Lucca. Con la bolla “Pro Excellenti” Gregorio XV ne elenca i motivi che ne consigliano l’istituzione, si dilunga sui “meriti” storici della città, che, tra l’altro, aveva dato origine alla famiglia dei “Borromeo”. La città di San Miniato, per il suo nobile passato, la vivacità culturale, i suoi edifici sacri, la bella e ampia pieve, venne riconosciuta come centro naturale e sede vescovile. La comunità diocesana ha conservato e conserva tuttora le sue particolari caratteristiche che, nel culto della tradizione e nel modo di vivere la fede, la differenziano dalle altre diocesi toscana e ne costituiscono la sua personalità inconfondibile, a costruire la quale hanno contribuito la sensibilità religiosa dei popoli e l’opera instancabile dei vescovi.
Ferma sostenitrice presso la Santa Sede ne fu la gran duchessa di  Toscana, Maria Maddalena d’Austria, vedova di Cosimo II, governatrice del vicariato di San Miniato. La storia della diocesi si caratterizza per un iniziale fervore organizzativo, che vede i vescovi determinati nel creare dal nuovo una struttura articolata e complessa. Si spiega così l’immagine che contraddistingue i primi pastori, da mons. Francesco Nori (1624-1631),  il primo vescovo, ad Alessandro Strozzi (1632-1648), da Angelo Pichi (1648-1653) fino a Carlo Visdomini Cortigiani (1683-1702), tutti impegnati a percorrere il territorio per conoscerlo, istituire uffici, convocare sinodi, far nascere il seminario; a ciò si accompagna un pari entusiasmo nell’abbellire la nuova cattedrale e le chiese più importanti del territorio, ma anche nel conservare un patrimonio già esistente. Basti pensare all’opera dello Strozzi, con il quale, nel 1644, mentre si avviavano i primi restauri della cattedrale, si procedeva anche alla creazione dell’Accademia degli Affidati, così da far nascere nella città un centro vivo di cultura. Fu con il vescovo Pichi che, nel 1650, nacque il seminario diocesano, in grado di offrire ai chierici una scuola diurna e una formazione teologica e culturale di cui si avvertiva l’urgente necessità. Poi, nel 1685, fu merito del Cortigiani fare del seminario stesso una struttura a carattere residenziale.
Il secolo XVIII vide la Chiesa sanminiatese guidata da vescovi di notevole cultura, di grande zelo religioso e decisi ad elevare la formazione spirituale e teologica del clero. Basta pensare al vescovo Giovan Francesco Maria Poggi (1703-1718), che ampliò il seminario e volle, un clero, istruito nelle Sacre Scritture e nella storia della chiesa, ma anche a Brunone Fazzi (1779-1805),  professore di morale all’Università di Pisa, fondatore degli Ospedali Riuniti di San Miniato.
Il Poggi diede inizio ai restauri della cattedrale, ordinò la costruzione del santuario del SS. Crocifisso e fece decorare la facciata del seminario, mentre il vescovo Giuseppe Suares de la Concha (1734-1754) abbatté le torri del palazzo vescovile, che assunse l’aspetto attuale. Dopo l’episcopato di Fazzi, fu Torello Pierazzi (1834-1851) a dare nuovo impulso alla struttura diocesana, perché dotato non soltanto di vasta cultura, ma anche di una forte apertura al nuovo. Furono sue la creazione della biblioteca del seminario e la rifondazione dell’Accademia degli Euteleti. Pierazzi istituì la Cassa di Risparmio di San Minialo. Intanto si avvicinavano eventi di grande rilevanza storica, come il passaggio allo Stato Unitario, che avvenne nel periodo in cui era vescovo Francesco Maria dei marchesi Alli Maccarani (1854-1863); episcopato caratterizzato anche dagli ultimi restauri della cattedrale, che le conferirono il suo attuale aspetto. Nel clima di diffuso anticlericalismo di fine Ottocento, emerse la grande spiritualità del vescovo Pio Alberto Del Corona (1875-1906). Durante i conflitti mondiali, la diocesi sanminiatese fu vicina alle sofferenze della gente comune, partecipe delle sue quotidiane difficoltà. In occasione della Prima Guerra Mondiale, essendo vescovo Carlo Falcini (1908-1928), numerosi sacerdoti e chierici furono chiamati al fronte, mentre la distruzione operata dai bombardamenti durante la seconda, portò il vescovo Ugo Giubbi (1928-1946) e il clero in prima linea nel prestare servizio a coloro che la guerra aveva privato di tutto, dagli affetti ai mezzi più elementari di sopravvivenza. Pur in tempi così tristi, la diocesi manteneva una propria vitalità, perfino sul piano culturale. Con Falcini ebbe inizio la pubblicazione del bollettino diocesano (1911), mentre con Giubbi nacque l’Azione Cattolica e nel 1937 il settimanale La Domenica. Nel 1938, fu celebrato il primo Congresso eucaristico diocesano, preceduto, nel 1936, dall’ultimo Sinodo antecedente il Concilio Ecumenico Vaticano II. È a Felice Beccaro (1946-1969) che si lega il cammino di ricostruzione, non soltanto materiale, ma anche spirituale, dell’intero contesto diocesano. Sotto il suo episcopato la diocesi realizzò restauri, fu celebrato il secondo Congresso eucaristico diocesano e si creò, nel 1967, il Consiglio presbiterale, sulla linea del rinnovamento determinato dal Concilio Ecumenico Vaticano Il. Con i vescovi Paolo Ghizzoni (1969-1986) ed Edoardo Ricci (1987-2004) siamo in piena cronaca La diocesi di San Miniato guidata dal vescovo Fausto Tardelli con la sua storia dà un’immagine tangibile attraverso gli spazi sacri delle proprie chiese, i tesori che la fede e la pietà di vescovi e sacerdoti hanno prodotto e conservato; la fede viva di intere popolazioni che si riconoscono in questo tessuto antico di tradizioni religiose e nell’operato di tutti i propri pastori.

Al Teatro dello Spirito dal 1947 con il Dramma Popolare

©  Fabrizio Mandorlini 
San Miniato è città del teatro senza avere un teatro. Ma il suo teatro è unico al mondo. E’ conosciuto come il “Teatro dello Spirito”, intendendo con ciò tutti quei testi che, rappresentati negli anni, si pongono il problema della ricerca del senso e del significato della vita, anche in maniera conflittuale e non risolta, e che anelano ad una risposta più alta, in un rapporto dialettico ed entusiasmante con l’alterità, vista non come limite, a volte opprimente, dell’uomo, ma, al contrario, come possibilità di risposta alle domande fondamentali della mente umana. Qui l’ispirazione cristiana viene dunque assorbita come essenza primordiale e ragione profonda dell’interpretazione della storia, come fonte di interrogativi e di possibili risposte, come radice culturale, sociale e spirituale, come possibilità di nuova vita: non un teatro confessionale, ma un dramma autenticamente popolare, che, a partire dai punti di riferimento culturali e religiosi del mondo occidentale, ricerca, a volte con fatica, una soluzione diversa, forse apparentemente più difficile, ma l’unica per cui valga la pena di spendere l’esistenza. Grandi scrittori, grandi registi e grandi attori. Il meglio del teatro è passato dal palcoscenico all’aperto del Teatro dello Spirito, naturale crocevia internazionale di questa drammaturgia, unica nel suo genere. Impossibile ricordarli tutti, una lunga striscia che attraversa il teatro italiano dal dopoguerra a oggi che unisce il palcoscenico, la scena e la fede e che ogni anno accende i riflettori sull’Italia e oltre. Tanto per citarne alcuni, a firmare la regia dei vari spettacoli sono stati vari maestri, tra cui Orazio Costa, Luigi Squarzina, Franco Enriquez, Sandro Bolchi, Aldo Trionfo, Josè Quaglio, Sandro Sequi, Beppe Menegatti, Ugo Gregoretti, Giancarlo Sbragia, Mario Scaccia, Pino Manzari e Krzysztof Zanussi. Tra gli autori dei testi rappresentati figurarono Henri Gheòn, Thomas Eliot, Jacques Copeau, Georges Bernanos, Graham Greene, Paul Claudel, Diego Fabbri, Ignazio Silone, Mario Pomilio, Mario Luzi, Elie Wiesel, Franco Enriquez, Thomas Mann, Kaj Munk, Derek Walcott, August Strindberg, Elena Bono, Julien Gracq, Curzio Malaparte ed il pontefice Karol Wojtyla. Quanto agli interpreti, si può dire che il meglio del professionismo teatrale è passato da San Miniato e, in molti casi, da qui è partito: Giulio Bosetti, Ernesto Calindri, Rossella Falk, Arnoldo Foà, Carla Fracci, Nando Gazzolo, Giancarlo Giannini, Remo Girone, Giuliana Lojodice, Evi Maltagliati, Anna Miserocchi, Valeria Moriconi, Gastone Moschin, Ave Ninchi, Ilaria Occhini, Gianni Santuccio, Giancarlo Sbragia, Mario Scaccia, Aroldo Tieri, Luigi Vannucchi, Massimo Foschi, Eros Pagni, Maria Paiato, Claudia Koll e tanti altri ancora. Nato nel 1947, tre anni dopo che le mine tedesche avevano distrutto il Verdi, il teatro cittadino costruito sul modello della Scala di Milano, l'Istituto del Dramma Popolare debutta mettendo in scena “La Maschera e la Grazia” di Ghéon in onore a San Genesio patrono della città e protettore dei mimi. Ricostruire le coscienze degli uomini lacerate e divise dalla guerra. E' ciò che è importante in questi momenti. Nel 1948, anno in cui va in scena “Assassinio nella Cattedrale”, il teatro sanminiatese si apre all'Italia; l'incontro con il “Piccolo” di Milano di Giorgio Strehler, con gli attori, i registi e i critici affermati tra cui Silvio D’Amico, diventa determinante. San Miniato è in poco tempo teatro d'avanguardia, teatro cristiano, teatro per evangelizzare. E’ la definitiva affermazione dell’Istituto del Dramma Popolare nel panorama teatrale italiano. Il Teatro dello Spirito, ora divenuto festival, ogni anno nel mese di luglio propone una prima assoluta scegliendo come luoghi per la rappresentazione lo scenario naturale delle piazze di San Miniato. Alla “prima” della manifestazione partecipano annualmente ministri, vescovi, noti personaggi dello spettacolo, dello sport, della finanza. Nulla a che invidiare ai più noti teatri italiani. L’attuale trasformazione dell’Istituto del Dramma Popolare da associazione di privati in Fondazione, con il concorso della Fondazione Cassa di Risparmio di San Miniato, del Comune di San Miniato e dello stesso istituto, ha lo scopo di perpetuare una tradizione che ha portato la Festa del Teatro sanminiatese ad assumere un ruolo di primissimo piano nella diffusione della cultura di ispirazione cristiana.